L’Europa sotto assedio e la strategia di Tertulliano

Esiste una violenza del martirio, che Tertulliano ha insegnato all’Occidente. Una violenza ben più raffinata di qualsiasi colpo di fucile o spada. Esclusa dalla logica dell’attentato fulmineo, tale violenza s’inserisce piuttosto nell’orizzonte di una strategia permanente. È la violenza della libertà che non incontra limiti, che ha permesso ai primi cristiani mandati al macello di dire: «muoio libero, testimone (martire) di una libertà invisibile, più forte di qualsiasi catena». A distanza di secoli, oggi l’Europa si sveglia e riconosce i propri martiri, riconoscendosi allo stesso tempo come irrimediabilmente vincolata alle sue radici. Attaccata, essa riscopre l’ineffabile violenza di un fondamentalismo laico non troppo dissimile da un ”universalismo cristiano” refrattario alle identità, esperto nelle contaminazioni, abile giardiniere specializzato negli innesti, che può dire di essersi fatto greco, giudeo, arabo, russo, ecc. ecc. ecc., per salvare il maggior numero. Libertà imprigionante, ossimoro metafisico, che pretende di vincolare ogni resistenza, ogni limite, entro il suo incondizionato, infinito peregrinare nell’assenza di limite. Integralismo per eccellenza, quello che professandosi fondamentalmente non religioso, pretende la cessazione di ogni religione. Fittizia, tirannica libertà che assolda al proprio esercito chiunque sia disposto ingenuamente a credere in una libertà leggera, privata del peso della responsabilità e della misericordia. Una libertà non liberale, perché sottratta al confronto con l’integralità della natura umana e, soprattutto, divina. Natura, quest’ultima, essenzialmente misericordiosa: vittima, che di fronte agli occhi infervorati del carnefice può dire «Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno». Natura divina appunto, non umana, come quella che oggi in Europa si scopre intrisa di risentimento per il nemico, e ciononostante continua a porre la questione sotto la forma di un conflitto tra laico e religioso, tra Occidente ed Oriente, tra Cristianesimo ed Islam. Il reale non è sempre razionale, e il vero non sta nell’intero. Unificare il mondo non significa salvarlo nella sua integralità complessa, ma sancire la vittoria definitiva dei più furbi, degli esperti di risiko metafisico: i filosofi, quelli cristiani e occidentali, ormai divenuti la totalità delle interfacce virtuali che esprimono le proprie opinioni credendo di esprimere al contempo la propria, inviolabile libertà.


Pamphlet contro gli intellettuali

Su Il Manifesto di oggi un appello firmato dal fior fiore degli intellettuali europei  dichiara il proprio sostegno alla lista Tsipras, in occasione dell’imminente agone per le elezioni europee: «Cento anni dopo l’inizio della Prima Guerra Mondiale e settanta anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, l’Europa è a un bivio. Se le politiche neo-liberiste e autoritarie attuali non saranno invertite, un disastro attende l’Europa e il mondo: un ulteriore declino della democrazia, un aumento della povertà e della disuguaglianza, la distruzione dell’ambiente, la crescita inesorabile delle forze di estrema destra e fasciste che attecchiscono nel terreno della disperazione creata dalla disoccupazione e dalle privazioni. L’Unione europea deve riscoprire i principi di pace originari, della democrazia e della giustizia sociale». Così esordisce l’appello. Belle e toccanti parole! Forse persino troppo, data la portata di alcuni intellettuali firmatari dell’appello, del calibro di Judith Butler e Slavoj Zizek. D’altronde i manifesti politici degli intellettuali peccano sempre di una certa superficialità da palingenesi. Quando ci si espone in gruppo i dubbi finiscono col dissiparsi, le paure sono accantonate, e parole come democrazia e giustizia sociale evaporano nell’evanescenza di antichi sogni di una cosa, e i carnefici tornano ad essere le politiche neo-liberiste. L’intellettuale che per mestiere è abituato a lavorare di fino si riscopre così in grado di spaccare il mondo a metà: i buoni e i cattivi, il bene e il male, questa e l’altra Europa. La persuasione del dualismo agisce con la potenza di un sillogismo aristotelico. Ma non si potrebbe nemmeno rimproverare a intellettuali stranieri la loro sconsideratezza nel pretendere che gli italiani capiscano il loro appello. È a questo punto che intervengono gli intellettuali italiani che si uniscono al coro: un’altra Europa! «La composizione di una lista transnazionale per Tsipras sarebbe una cosa meravigliosa, un modo per celebrare di nuovo l’Europa unita». Come se una Europa forte potesse fare tranquillamente a meno di nazioni autonome. Come se bastasse dire che l’Europa dev’essere qualcosa di più di un regime di dittatura monetaria, teologico Leviatano secolarizzato che assoggetta a sé le atomizzate singolarità derubandole delle loro ricchezze. Come se dietro al mostruoso neo-liberismo non ci fosse mai stato in fondo un metodo liberale di cui tutti abbiamo usufruito e abusato. Come se in Italia ci fossero stati soltanto il comunismo e il fascismo, e non Gobetti, Rosselli, Gramsci che quegli stessi intellettuali non esitano a barattare per dedicarsi anima e corpo a favolosi progetti di ricerca su teodicee bio-politiche da insegnare ai propri studenti che conoscono a memoria Foucault   ma ignorano, per dirla con Bobbio, il profilo ideologico del Novecento italiano; che nelle università non studiano Vico, Croce, Gentile bensì Herder, Hegel ed Heidegger. L’Italia  non riesce proprio a sentirsi europea senza provare nello stesso tempo un senso di inferiorità. Ed è così che essa può mettere in quarantena le sue malattie e le sue crisi di coscienza riparandosi sotto la montagna dell’emancipazione europea, che può dire l’altra Europa dimenticandosi di dire prima l’altra Italia. Noi che invece per tenacia o per intransigenza vogliamo essere controcorrente «all’estero chiediamo soltanto che l’esistenza di questa fermezza di lotta sia intesa come garanzia che gli Italiani sanno pensare da sé al loro futuro e alla loro civiltà. Nella nostra lotta lasciate che rifiutiamo ogni alleanza straniera: le nostre malattie e le nostre crisi di coscienza non possiamo curarle che noi. Dobbiamo trovare da soli la nostra giustizia. E questa è la nostra dignità di antifascisti: per essere Europei dobbiamo su questo argomento sembrare, quantunque la parola ci disgusti, nazionalisti» (Piero Gobetti, Lettera a Parigi, 18 Ottobre 1925). C’è da chiedersi soltanto se in Italia esista attualmente una fermezza di lotta simile a quella di cui parla Gobetti. Per trovarla saremo disposti a correre il rischio di sbagliarci, perché sappiamo che un nostro errore teorico vale molto meno dello sforzo comune di chi, sia pure con tante ambiguità, questo paese – forse per la prima volta dopo tanto tempo – sta cercando di cambiarlo sul serio.


Mussolini e Gramsci

Quando nel 1926 Benito Mussolini fece arrestare Antonio Gramsci, non ebbe molte remore nel giustificare la sua decisione con parole schiette: «per vent’anni devo impedire a questa mente di funzionare». I due si conoscevano bene. Il primo articolo politico di Gramsci risale al 1914 ed è una risposta ad un articolo del Mussolini socialista: “Dalla neutralità passiva alla neutralità attiva”. Nella sua risposta Gramsci,  attratto dalla figura carismatica del Mussolini rivoluzionario, non è ancora consapevole della assoluta incoerenza intellettuale che diverrà ben presto la caratteristica fondamentale del futuro Duce, che non potendo «essere il capo del proletariato, divenne il dittatore della borghesia». Nel suo primo e ultimo discorso in Parlamento nel 1924 Gramsci ebbe poi l’occasione di scontrarsi direttamente con Mussolini. Piero Gobetti ne aveva preannunciato profeticamente i toni con queste parole: «Antonio Gramsci va alla nuova camera fascista come rappresentante degli operai del Veneto. È davvero la Rivoluzione, sconfitta, che va in Parlamento a predire sciagure ai vincitori. […] Se Gramsci parlerà a Montecitorio, vedremo probabilmente i deputati fascisti raccolti e silenziosi a udire la sua voce sottile ed esile, e nello sforzo di ascoltare parrà loro di provare un’emozione nuova  di pensiero. La dialettica di Gramsci non protesta contro i brogli e le truffe ma ne documenta, dalle pure altezze dell’idea hegeliana, la insopprimibile necessità per un governo borghese. I suoi discorsi saranno condanne metafisiche, le invettive risentiranno dei bagliori di una palingenesi». Ciò che più di tutto Mussolini dovette temere da quell’uomo dal capo enorme e il corpo malaticcio, doveva infatti essere la refrattarietà della sua intelligenza a confrontarsi con l’avversario al di fuori di una coerenza dialettica priva di qualsiasi retorica, insensibile alla propaganda del pane quotidiano a alle accuse complottiste. Di fronte a Gramsci Mussolini doveva ammettere la sua mediocrità di capo rude e invasato di se stesso. Egli non gli perdonò l’intelligenza e così credette di poterla sopprimere rinchiudendo Gramsci nella solitudine di una cella, privandolo della possibilità di vivere concretamente il suo tempo storico. Così facendo Mussolini si liberò del Gramsci politico, ma paradossalmente promosse il consolidamento del Gramsci filosofo. Sarà a partire dal periodo di prigionia infatti, che Gramsci inizierà ad avvertire l’esigenza di scrivere come Goethe für ewig (per l’eterno). Sottratta dal movimento storico degli avvenimenti, impossibilitata ad agire su essi, la sua mente abbandonò il sarcasmo del pamphlétaire per dedicarsi all’indagine scrupolosa della storia e della  cultura italiane. Gramsci non visse la sua prigionia come un martirio. Egli utilizzò ogni espediente legale per crearsi le condizioni che gli avrebbero garantito di poter studiare in tranquillità. Gradualmente gli fu accordata la possibilità di scrivere, di stare in cella da solo, e di ricevere libri (l’amico Piero Sraffa gli regalerà un abbonamento illimitato presso due librerie milanesi). Il valore della resistenza di Antonio Gramsci al fascismo non si misura dalle quantità di restrizioni che pure egli ebbe a subire a causa della repressione fascista, bensì dallo sforzo intellettuale compiuto per ricercare nella storia e nella cultura italiane le origini del fascismo, il suo non essere un fatto contingente, un incidente di percorso. Lungi dall’essere meramente un simbolo dell’antifascismo Gramsci è una riserva di contenuto, di resistenza intellettuale, che l’Italia può pure continuare a rinchiudere nei lineamenti pop di un’icona da appendere in tutti i circoli Arci, oppure nell’esempio di un valore svaporato nell’indeterminatezza storica (tra l’altro sconfitto), ma che essa non riuscirà mai a comprendere fino a quando non si confronterà con essa con l’intelligenza senza la quale l’opera intellettuale e morale gramsciana è tuttalpiù ridotta ad un slogan sempre buono da rievocare in periodi di aridità intellettuale, proprio da quegli indifferenti che credono di essere con Gramsci quando denunciano l’altrui indifferenza.


Note su Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura

Pasolini il più grande intellettuale “italiano” del secondo dopoguerra? Nella sua produzione letteraria realizza l’auspicio di Antonio Gramsci della nascita di una letteratura nazional-popolare, la cui creazione in Italia era stata storicamente frenata dalla tendenza della sua classe intellettuale – anche quando intellettualmente “organica” a classi sociali popolari – ad essere assorbita nel cosmopolitismo cattolico che ha una doppia funzione storica: 1) con la controriforma impedisce ogni accesso del popolo alla cultura (al contrario di ciò che avviene nei paesi protestanti); 2) sradica gli intellettuali italiani dal terreno nazionale ispirando loro un afflato cattolico (laico-universalistico) che si protrae fino al Risorgimento (Mazzini). Nella sua istintiva attrazione verso le classi popolari (sottoproletariato), Pasolini concretizza l’auspicio gramsciano. Negli “ultimi” egli non cerca – come Verga – solo i “vinti”, bensì la storica innocenza di una classe sociale isolata dal potere, la sola ancora in grado di arrecarsi il diritto di opposizione a una cultura cosmopolitamente omogenea (capitalistica), estranea alle obliate radici culturali di un popolo contadino tramandate in un silenzio che il potere non ha saputo ascoltare. Nel popolo – oltre Gramsci, o forse radicalmente con lui – Pasolini cerca «la sua allegria, non la millenaria sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza» (Le ceneri di Gramsci). Il ruolo di Pasolini nella cultura italiana del secondo dopoguerra è simile al ruolo assunto da Dostoevskij nella cultura russa della seconda metà dell’800. Entrambi possono opporre una via “nazionale” all’universalismo cattolico a partire da una prospettiva cristiana eretica (inconsapevolmente luterana nel primo, consapevolmente ortodossa nel secondo). Significativa l’avversione pasoliniana alla DC (Lettere luterane), incarnazione politico-culturale di un cattolicesimo che sfrutta la storica ignoranza popolare per perpetuare il suo antico, mai abbandonato, progetto teocratico.


Democrazia senza eroi. Lo Stato d’eccezione permanente.

Quando l’urgenza di un cambiamento radicale, capace di fare uscire un paese dallo stallo politico e culturale in cui questo si è progressivamente cacciato nel corso della sua storia controversa, diventa lo slogan a cui tutte le parti politiche e sociali si appellano con incondizionata fiducia e messianico ardore, diviene manifesto che ci si trova nel bel mezzo di un momento storico in cui l’istanza rivoluzionaria ha ormai nettamente preso il sopravvento su quella reazionaria. Ma affinché la domanda di cambiamento si concretizzi è necessario che essa sospenda ogni premura democratica, chiamata altrimenti a fungere da freno alla più cogente esigenza di ribaltamento radicale delle vecchie consuetudini politiche corrotte e burocratizzate. Bisogna avere il coraggio di abbandonare la democrazia quando si è ad essa culturalmente impreparati. L’insediamento del nuovo governo Renzi, che già dal suo esordio trascina con sé il peccato originale del tradimento democratico, ha sancito questo esito ineluttabile a cui l’Italia pare andare incontro da tempi immemorabili. Così come lo sancisce, l’ormai consolidata incapacità del Movimento Cinque Stelle di trovare un compromesso tra il rispetto delle promesse fatte ai propri elettori («Tutti a casa!»), e la creazione di una trasparenza interna che svincoli dai diktat del blog di Grillo-Casaleggio, le singole autonomie intellettuali che necessariamente emergono, ma che senza censure rischierebbero di far perdere di vista la ben più pressante necessità di unità interna che sola può garantire una lotta intransigente a un intero sistema politico avvertito oramai come irrimediabilmente corrotto. Questo esito  antidemocratico che si palesa su più fronti, è l’espressione di una storica incapacità di porre in una matura dialettica lo stato culturale della società civile con quello politico della classe dirigente che dovrebbe esserne il riflesso. Finalmente si rende manifesta la specularità insuperabile di due vuoti che sin dal Risorgimento si rimproverano a vicenda la loro inconsistenza: quello politico e quello culturale; vuoto di un’intera classe politica incapace di far proprie le istanze di una società confusa, la quale lungi dall’essere ancora un equilibrio organico di idee diverse, pare tuttalpiù assomigliare a un ambiguo agglomerato di forze inerti che si è  storicamente abituata  a reclutare la sua classe dirigente obbedendo esclusivamente ad una logica di interessi personali, e per di più irriducibilmente viziati da una disarmante tensione alla contingenza, assolutamente incapace  di progettarsi in una visione di più ampio respiro capace di andare oltre le sia pur irrinunciabili rivendicazioni materiali quotidiane. Il continuo appellarsi a situazioni di emergenza di cui sono riflessi l’abuso del decreto legge e la parallela neutralizzazione del dibattito parlamentare, e l’inerziale prolungarsi di uno stato di eccezione permanente vorrebbero in questo senso trovare la loro giustificazione in un’urgenza storica che non può essere trascesa, assolutamente refrattaria a qualsiasi tipo di attacco ideologico capace di superare l’imbattibile crisi del presente cercandone la soluzione in futuro sia pur soltanto prossimo. La portata della crisi non è presa con la dovuta serietà, nel momento in cui è ridotta ad un contingenza storico-spaziale e per di più circoscritta esclusivamente nel ristretto perimetro della dimensione economica dell’esistenza. I programmi e le soluzioni per uscire dalla crisi puntano allora tutto sul lavoro, sul reddito, e sulla riconfigurazione di un piano industriale (se mai ce ne fosse stato uno!) in grado di garantirli. In questa prospettiva si intravede nella lungimiranza di poche élites sostenute da poteri forti, e meglio ancora nell’eternizzazione dell’esigenza di una guida carismatica che dovrebbe invece essere un’eccezione, l’unica fonte in grado di pianificare un futuro che garantisca allo stesso tempo un miglioramento delle condizioni primarie di esistenza della maggioranza e la conservazione del potere nelle mani di storiche plutocrazie avventuriere e spregiudicate. L’istanza sulla natura della relazione tra decisione e sovranità è evasa nella convinzione impossessatasi di queste élites, di essere in grado di progettare un futuro senza una piena legittimazione popolare. L’interrogativo sulla natura del rapporto che dovrebbe consistere tra le rivendicazioni popolari e la classe dirigente chiamata a tradurle in azioni politiche è temporaneamente sospeso, nella consapevolezza dell’assoluta assenza di qualsiasi possibilità di rappresentare in modo inequivocabile istanze civili e culturali assolutamente indeterminate, le quali più che premere dal basso per concretizzarsi in azioni politiche, sembrano tuttalpiù essere stimolate da una retorica dell’immedesimazione nelle condizioni di disagio degli italiani da parte dei nuovi frequentatori del palazzo. La politica si sente così in dovere di immedesimarsi nella società civile; la contingenza e la confusione delle soluzioni che essa propone per lo scioglimento di problemi  storicamente consolidati, non sono quindi altro che il riflesso della contingenza e della confusione di interessi inestricabilmente particolaristici covati nel seno della società civile, ancora del tutto lontani dall’intravedere un possibile percorso comune, il solo in grado di garantire risposte concrete a domande che assillano la storia d’Italia sin dalla sua nascita: si può fare l’Italia senza fare gli italiani? Il rischio dello Stato d’eccezione è solo una contingenza storica, oppure esso è destinato a ritornare ciclicamente ogni qual volta si palesi l’impossibilità di una classe dirigente di rappresentare istanze chiare, determinatesi attraverso una lotta civile chiamata a riempirle di concretezza? Istanze che non siano confusi sogni astratti di palingenesi democratiche, né tantomeno i soliti interessi particolari che trovano nel clientelismo burocratico il rifugio a cui non possono rinunciare (si pensi a questo prima di promettere mai inaudite riforme della burocrazia), ma che siano l’espressione concreta, scaturita dalla lotta fra idee differenti di società, cultura, economia e politica che solo attraverso la prova della realtà possono legittimamente stabilire i loro confini e le loro possibilità.


La dittatura dei sorrisi

A prendere sul serio i comici si finisce col piangere!

Secondo un inedito episodio della vita di Platone, narrato da Olimpiodoro, il filosofo ateniese, che nella sua opera tanto aveva lottato contro il potere propagandistico e deteriore della commedia attica in politica, sarebbe morto con l’intero volume delle commedie di Aristofane sotto il suo cuscino. A prender sul serio questo aneddoto si è portati a questa conclusione: Platone, che era uno spirito tragico, non avrebbe mai abbandonato la consapevolezza dell’enorme potere della comicità sulla società civile, della sua potente capacità di introdurre nelle teste dei suoi spettatori un’immagine semplificata della politica, destinata ad essere presa sul serio. L’immagine che Aristofane nelle sue commedie contribuì a creare di Socrate, fu senz’altro una delle cause che portò alla condanna di quest’ultimo. La geniale penna del commediografo ateniese trasformò Socrate in un ciarlatano e impostore, veicolando presso il suo pubblico un’idea che, lungi dall’essere solo un modo per far ridere, era un intenzionale capo d’accusa politico mosso contro quello che, a giudizio di Platone era il più saggio degli uomini politici ateniesi. Platone, che non era uno sprovveduto, dové avvertire con sconfortante lucidità, che la filosofia non era in grado di tenere testa al potere propagandistico della commedia. Che gli uomini, in politica, son più propensi a dar retta alle immagini semplificate dei comici, anziché a quelle enormemente più complesse dei filosofi.

Hitler, che sicuramente non aveva letto Platone, nondimeno ne condivise l’intuizione. Quando uscì Il grande dittatore di Chaplin, egli pretese di vedere immediatamente il film. Lo vide in privato, alla presenza di pochi fidati. Si dice che abbia riso di buon gusto, che il film lo abbia enormemente divertito. In effetti, quanto gli assomiglia Chaplin in quel film! Hitler dové scorgere nel tipo stilizzato del dittatore portato sullo schermo da Chaplin, una sconcertante somiglianza con l’altrettanto stilizzata e ostentata posa di capo che egli si dava ogni giorno. Chaplin aveva però colto radicalmente solo il lato comico di questa semplificazione politica, quello tragico poté solo presentirlo, ma esso si sarebbe dimostrato enormemente più inquietante di quello che egli aveva immaginato.

Se la politica non ha mai fatto a meno dell’ausilio della comicità, è perché questa in un modo o nell’altro riesce a garantirle un più immediato consenso. Per far ridere qualcuno bisogna saper inventare dei tipi, trarre dall’enorme complessità che è alla base di ogni carattere umano, pochi tratti caratteristici ed esasperarli. Tipi di questo genere sono enormemente utili all’uomo politico per demonizzare il proprio avversario, per semplificarlo agli occhi del pubblico di potenziali sostenitori. Ogni giorno dal suo blog, Beppe Grillo che è un comico serio, non fa altro che questo. Chiunque si opponga al M5S è inevitabilmente condannato ad essere immediatamente sottoposto al suo talento di caricaturista. Berlusconi, per suo conto, non ha meno talento di Grillo. Le sue geniali caricature del comunismo, della giustizia, della libertà, sono state talmente epocali da aver indotto milioni di italiani a credere in esse, come se non si trattasse di caricature, ma di cose reali. Il suo talento nel raccontare barzellette, i suoi simpaticissimi aneddoti, hanno portato gli italiani a volergli un gran bene (forse anch’io in fondo gliene voglio). Peccato però che non si sia mai trattato di far ridere un popolo, ma di garantirgli una vita migliore! La storia del resto forse giustificherà Grillo, perché egli ha avuto una trovata geniale: solo un comico di professione, avrebbe potuto liberare il popolo italiano dalla dittatura di sorrisi imposta da un comico per vocazione. Ma a questo punto, scoperto il trucchetto è già troppo tardi. Un altro comico per vocazione si è affacciato sul palcoscenico della politica italiana. Grillo lo chiama già un suo collega, e Berlusconi ci va d’amore e d’accordo. Finalmente con Renzi, anche la sinistra è in grado di far sorridere gli italiani nel loro complesso, e non più solo il suo elettorato. Il suo decisionismo, lungi dall’essere solo un modo per rispondere ad un’urgenza politica, sembra essere più che altro una incosciente parodia di una Realpolitik all’italiana, come la commedia appunto.
Alla luce di tutto questo, come spiegare allora gli attuali estremismi che covano come serpi velenose nel cuore di milioni di italiani sempre più incazzati, che cedono facilmente alla tentazione dell’insulto, della gogna mediatica? Possibile che con tre comici in politica gli italiani non siano più in grado di sorridere? Possibile che a forza di prendere sul serio i comici si finisce col piangere? La portata della farsa è talmente grande, che si fa fatica a distinguerla dalla realtà. Il comico lo sa benissimo: egli fa ridere la gente per difendere se stesso. In cuor suo il comico è un malinconico, che si serve della comicità per evitare di essere colpito nel profondo. Egli da un immagine stilizzata di se stesso affinché nessuno sia tentato di studiarne le profondità. Anche per chi ride di questa immagine è lo stesso: si ride per sdrammatizzare, per addolcire le amarezze della vita. Affinché sia genuina la comicità deve evitare di prendersi sul serio. Confondendosi con la politica essa rischia invece di prendersi dannatamente sul serio. Gli spettatori lo capiscono, scoprono il trucco dell’attore e anziché sorridere, piangono o si incazzano!


Chopin

Tonfo nudo… vibra di silenzio e di morte; scuote esanimi polmoni, vuoti di gioia. Sputa l’anima impregnata il veleno di un sogno nutrito da sangue e catarro, e non trova pace, fra gli orecchi sordi dei mortali. Logica dell’Immobile: fissare le cose in pose di ghiaccio, con la forza di dita meno ciniche del cuore angosciato. Notturno: essenza della malattia!


L’essenza mediocre del fascismo

Chi scrive non può fare a meno di pensare filosoficamente, malgrado in questi giorni un’incalzante urgenza storica sembri aver sancito, quasi all’unanimità, il divieto di perdersi in vuote considerazioni filosofiche per concentrarsi invece sui fatti. Quali fatti? Gli italiani non ce la fanno più, le loro pance iniziano a preavvertire la fame. Dopo gli anni del benessere i miserabili riscoprono la loro antica miseria fin qui camuffata da sogni di cartapesta democristiani prima, berlusconiani poi, che con gli anni hanno cancellato con criminale leggerezza l’onesta pesantezza di un’istanza post-fascista tanto più cogente quanto più rimasta orfana di una matura riflessione: come siamo arrivati al fascismo? Perché gli italiani non vogliono fare i conti col loro passato? Perché a far paura sono quattro ragazzetti di CasaPound e non la rabbia covata in sordina nel seno di una massa indeterminata di persone deluse dal fallimento dei loro sogni imprenditoriali, a loro tempo suscitati dall’immagine paternalistica di un capo che si è fatto da solo, che con i soldi e le puttane ci ha saputo fare, che ha trasformato questo paese in una azienda commerciale fondata sulla televisione, e i paladini della carta stampata in appassionati ermeneuti della carismaticità del potere, e in machiavellici scimmiottatori delle logiche di Palazzo? C’è qualcosa che accomuna questa massa a quella che portò Mussolini al potere? Come la piccola borghesia di cui si nutrì a suo tempo la rivoluzione fascista anche questa odierna massa indeterminata si caratterizza per la sua capacità di mimetizzarsi in una zona grigia refrattaria a qualsiasi tentativo di messa a fuoco. Un gran numero di italiani che hanno creduto nel berlusconismo e ne hanno sposato i valori, che lo hanno difeso, nonostante tutto; che hanno visto in esso il modello capace di orientare il loro personale desiderio di successo. Una grandissima quantità di persone che hanno creduto di essere liberali, allevate nel mito dell’anticomunismo onnipresente, che alla fine però si sono dimostrate liberali solo per la sconfinata assenza di limiti della loro stupidità. Stupidità che non è ignoranza, parola quest’ultima troppo socratica per essere bistrattata in tale modo. Bensì stupidità come pretesa di essere dalla parte della ragione solo perché si sta vincendo, di essere un modello perché immagine momentaneamente riuscita  del mito dell’imprenditoria di se stessi. La fortuna ha abbandonato questa immagine per tanti anni spinta come fine supremo dell’agone politico ma non solo: questa immagine ha orientato un’intera cultura, o meglio, ha creato una pseudo-cultura. Sì, perché il problema si risolve in un problema culturale e per chi, come chi scrive, per un attimo ha creduto alla salvezza di questo paese quando nelle ultime elezioni, prima del doppio Napolitano e dello scivolone Prodi, si profilava la possibilità dell’elezione di Stefano Rodotà a presidente della Repubblica, la parola cultura non deve sembrare poi tanto incompatibile con la parola politica. Nella sua consulenza di giurista nell’ambito dell’esperienza del Teatro Valle Occupato di Roma, nel suo tentativo di aprire una strada legittima e non utopica alla logica dei beni comuni, Rodotà non ha mai avuto il timore di pronunciarla questa parola, diversamente dalla stragrande maggioranza dei politici italiani sempre attenti a non offendere il loro elettorato, la cui vuotezza è spesso il riflesso della propria di vuotezza: «Non si danno problemi politici al di fuori di problemi culturali!» (diceva Rodotà in una delle tante costituenti del Teatro Valle). A questa zona grigia della società italiana questa frase dovette sembrare inutile filosofia, e anche quando, sotto la guida della geniale trovata del Movimento 5 Stelle una parte di essa fu indotta a gridare in piazza il nome del giurista, essa lo faceva solo in nome della sua impalpabile lotta contro la casta e dei suoi privilegi. Quando Giuliano Ferrara in quegli stessi giorni diceva che la gran parte di quelli che gridavano il nome di Rodotà ne aveva fin lì ignorato l’esistenza era vero. La cultura, lo abbiamo capito, non è il forte di questa massa indeterminata che abbiamo chiamato zona grigia. Ce ne siamo accorti in questi giorni in cui ci siamo continuamente sentiti attaccati a causa del nostro accademico intellettualismo, del privilegio di aristotelica memoria dello stomaco del filosofo, che pensa solo a pancia piena. E nonostante il tentativo di far comprendere loro che forse il nostro stomaco era più vuoto del loro, e la nostra filosofia più nuda della loro rabbia, nulla è valso a niente. La zona grigia si è ostinata a gridare i suoi assunti: abbiamo fame, fottetevi voi e la vostra cultura! Ma ciò che è drammatico è che il loro rifiuto di cultura era anche un rifiuto di genuina ignoranza dal momento che rifiutavano un confronto. Perché in fondo una loro cultura essi c’è l’avevano già; precisamente quella orientata da quei sogni di cartapesta di cui si è detto sopra: la cultura, o meglio il culto, del loro ego creato ad immagine e somiglianza dell’archetipo politico dominante. Questo archetipo è forse definitivamente caduto, e ha lasciato orfano di un capo chi, consapevolmente o meno, in questi anni non ha fatto che seguirlo. Vuoto di potere che è il riflesso di un vuoto culturale, che non vuole essere colmato, e che intacca, anche qui forse definitivamente, un PD ormai orientato verso la svolta personalistico-carismatica che sola in Italia si è dimostrata essere la scelta vincente. Era inevitabile: dopo aver sentito alcuni tesserati di un PD locale dire che insegnare Gramsci non è concreto, bisognava aspettarselo l’esito Renzi! La scarsa partecipazione all’allarmante protesta del 18 Dicembre in Piazza del Popolo forse sarebbe sufficiente a placare i nostri timori. Ma abbiamo visto con i nostri occhi le facce di chi era in quella piazza. Abbiamo ascoltato i tanto decantati fatti che si pretende di fare. Abbiamo visto gli innumerevoli tricolori presenti e non abbiamo potuto fare a meno di notare, che fino ad allora, probabilmente gente siffatta quei tricolori li aveva sbandierati solo durante i mondiali di calcio. Ci siamo sentiti avvinti dal clima Berlino anni ’30 che aleggiava a valle del Pincio. Nonostante fossero pochi abbiamo avuto timore. In un attimo i nostri storici presagi hanno assunto i lineamenti di un volto: grigio come quello della massa di cui è espressione, privo allo stesso tempo della civiltà e della pesantezza della cultura e della innocente ignoranza, di pasoliniana memoria, della povertà di un mondo contadino ormai quasi del tutto scomparso. Questa zona grigia non vuole prendere una posizione tra innocenza e cultura. Essa vuole allo stesso tempo essere misera e saccente. Essa vuole poter rivendicare la propria povertà nonostante non abbia la dignità per farlo; dignità della povertà che in questi anni essa non ha esitato a svendere in cambio di sogni neoliberisti non alla sua portata. L’unica parola in grado di metterla a fuoco è mediocrità. Essa non è né povera né ricca, né innocente né civile, non è né l’uomo buono di Rousseau né quello cattivo di Hobbes, bensì solo il prodotto mediocre di un’antico sogno borghese: quello che da secoli cerca di livellare, smussandoli in un confine-baratro di mediocrità, l’innocenza della vita quotidiana e l’intelligenza critica che fin qui si sono spartite democraticamente il diritto di rappresentare l’istanza dell’uomo nella sua interezza, fatta di carne e di spirito. Solo la mediocrità, proprio in virtù della sua natura intermedia, può ambire a risolvere questa separazione inconciliabile. Come? Combattendo allo stesso tempo l’ignoranza e l’intelligenza, per aver il monopolio sulla politica, sulla cultura, sulla vita. Solo la mediocrità può ambire ad essere totalitaria; solo essa può creare le premesse per una rivincita del fascismo, che della mediocrità dei suoi dirigenti ed elettori, privi tanto di onestà quanto di intelligenza critica, ha  fatto la propria arma vincente.


La noia di Voltaire

Leggendo Voltaire si ha come l’impressione di guardare, con impressionante anticipo, nel ventre di quel peculiare fenomeno intellettuale francese che avrebbe fatto della noia, il principio metafisico in grado di giustificare uno sguardo borghese autocompiaciuto nello spiarsi nelle bassezze del proprio animo, quasi orgoglioso della propria mediocrità. L’antropologia di Voltaire non è né pessimista né ottimista: l’uomo è per lui semplicemente un essere mediocre che deve accontentarsi di coltivare il proprio orto. Nessuno dei personaggi del suo Candide ou l’optimisme ha una profondità psicologica capace di fungere da sostegno ad un’antropologia impegnativa. Ma ciò che comunque li rende grandi è la stupefecente somiglianza dei loro profili psicologici con quelli dell’uomo che ormai da più di un secolo ci ostiniamo a chiamare contemporaneo: quello che ha fatto della ostentata banalità dei suoi sentimenti la garanzia contro ogni possibile attacco alla prigione di solitudine in cui s’è cacciato.


Teodicea ed urgenza

Fondata su Cristo la cultura occidentale si è infine riconosciuta contro Cristo. Fu evidentemente l’elemento ellenistico abusato dalla teologia occidentale a contribuire in modo massiccio alla creazione di un tale cortocircuito. Tutto ciò risulta estremamente evidente nelle derive spersonalizzanti in cui la mistica occidentale ha molto spesso corso il rischio di sfociare: da Dionigi Areopagita a Scoto Eriugena, da Eckart a Cusano, da Böhme ad Hegel. In queste teologie l’elemento comune è una certa ambiguità del ruolo in esse giocato dall’elemento cristiano e da quello greco. Ciò che resta indeciso, e forse inconfessabile, è se esse siano veramente delle teologie cristiane. In virtù dell’abuso dell’elemento ellenistico razionale la stragrande maggioranza delle teologie occidentali si sono trasformate in spericolate teodicee razionali incapaci di mettere a fuoco quello che di contro è forse l’elemento più caratteristico dell’inaudito annuncio gesuano: l’urgenza con cui la sofferenza umana reclama di essere redenta da un amore che, lungi dall’essere astratto amore nei confronti del genere umano, si dà invece come amore pesante, attivo, che deve fare i conti con la resistenza entro cui sempre s’iscrive il contatto fastidioso tra concrete personalità, tra corpi che nel loro reciproco annusarsi e sfiorarsi possono amarsi od odiarsi, ma solo in modo viscerale. Mentre la teologia occidentale costruiva teodicee razionali distraenti in grado di ovviare a questo irrisolvibile problema, quella orientale delegava all’ascesi monastica la sua risoluzione. In questo contesto, mistico non significava dissoluzione spersonalizzante dell’io nell’unità originaria; qui il mistico non pregava Dio affinché lo si liberasse da Dio, ma per crocifiggere il proprio orgoglio smisurato. Il monaco non rifugge dal mondo, non lo disprezza; egli vi si allontana per poterci ritornare guarito dal proprio orgoglio. La santità, lungi dall’essere beatitudine intellettuale, è la condizione nella quale l’uomo è radicalmente esposto alla tentazione del peccato. Chiunque abbia letto Dostoesvkij potrà facilmente riconoscere questi temi cristiani che sottendono la vita psichica dei suoi vivi personaggi. Lo starec Zosima manda il discepolo Alësa nel mondo a soffrire, perché solo con la sofferenza egli potrà acquisire il diritto di partecipare alle nozze di Cana, mirabile parabola in cui diviene palese che Cristo ha amato gli uomini tutti interi, fin nella sregolatezza della loro gioia. L’assenza in essa di ellenismo filosofico ha impedito alla teologia ortodossa di produrre tanto una scolastica quanto una mistica speculativa. Immuni dall’astrattezza filosofica, nel XIX secolo, i suoi contenuti potevano così essere tradotti in modo mirabilmente vitale da un romanziere laureatosi in ingegneria quale era Dostoevskij. Il suo pensiero, lungi dall’essere solo il prodotto di un genio, costituisce la sintesi vitale di un’intera tradizione teologica che d’ora in poi non potrà fare a meno di confrontarsi col pensiero dostoevskijano, perché in esso sarà dato trovare un elemento che costituisce l’essenza della teologia ortodossa: la consapevolezza che nessuna teologia speculativa ha il diritto di ergersi al di sopra della vita pulsante di sangue e di nervi dell’uomo nella sua concretezza storica.