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L’essenza mediocre del fascismo

Chi scrive non può fare a meno di pensare filosoficamente, malgrado in questi giorni un’incalzante urgenza storica sembri aver sancito, quasi all’unanimità, il divieto di perdersi in vuote considerazioni filosofiche per concentrarsi invece sui fatti. Quali fatti? Gli italiani non ce la fanno più, le loro pance iniziano a preavvertire la fame. Dopo gli anni del benessere i miserabili riscoprono la loro antica miseria fin qui camuffata da sogni di cartapesta democristiani prima, berlusconiani poi, che con gli anni hanno cancellato con criminale leggerezza l’onesta pesantezza di un’istanza post-fascista tanto più cogente quanto più rimasta orfana di una matura riflessione: come siamo arrivati al fascismo? Perché gli italiani non vogliono fare i conti col loro passato? Perché a far paura sono quattro ragazzetti di CasaPound e non la rabbia covata in sordina nel seno di una massa indeterminata di persone deluse dal fallimento dei loro sogni imprenditoriali, a loro tempo suscitati dall’immagine paternalistica di un capo che si è fatto da solo, che con i soldi e le puttane ci ha saputo fare, che ha trasformato questo paese in una azienda commerciale fondata sulla televisione, e i paladini della carta stampata in appassionati ermeneuti della carismaticità del potere, e in machiavellici scimmiottatori delle logiche di Palazzo? C’è qualcosa che accomuna questa massa a quella che portò Mussolini al potere? Come la piccola borghesia di cui si nutrì a suo tempo la rivoluzione fascista anche questa odierna massa indeterminata si caratterizza per la sua capacità di mimetizzarsi in una zona grigia refrattaria a qualsiasi tentativo di messa a fuoco. Un gran numero di italiani che hanno creduto nel berlusconismo e ne hanno sposato i valori, che lo hanno difeso, nonostante tutto; che hanno visto in esso il modello capace di orientare il loro personale desiderio di successo. Una grandissima quantità di persone che hanno creduto di essere liberali, allevate nel mito dell’anticomunismo onnipresente, che alla fine però si sono dimostrate liberali solo per la sconfinata assenza di limiti della loro stupidità. Stupidità che non è ignoranza, parola quest’ultima troppo socratica per essere bistrattata in tale modo. Bensì stupidità come pretesa di essere dalla parte della ragione solo perché si sta vincendo, di essere un modello perché immagine momentaneamente riuscita  del mito dell’imprenditoria di se stessi. La fortuna ha abbandonato questa immagine per tanti anni spinta come fine supremo dell’agone politico ma non solo: questa immagine ha orientato un’intera cultura, o meglio, ha creato una pseudo-cultura. Sì, perché il problema si risolve in un problema culturale e per chi, come chi scrive, per un attimo ha creduto alla salvezza di questo paese quando nelle ultime elezioni, prima del doppio Napolitano e dello scivolone Prodi, si profilava la possibilità dell’elezione di Stefano Rodotà a presidente della Repubblica, la parola cultura non deve sembrare poi tanto incompatibile con la parola politica. Nella sua consulenza di giurista nell’ambito dell’esperienza del Teatro Valle Occupato di Roma, nel suo tentativo di aprire una strada legittima e non utopica alla logica dei beni comuni, Rodotà non ha mai avuto il timore di pronunciarla questa parola, diversamente dalla stragrande maggioranza dei politici italiani sempre attenti a non offendere il loro elettorato, la cui vuotezza è spesso il riflesso della propria di vuotezza: «Non si danno problemi politici al di fuori di problemi culturali!» (diceva Rodotà in una delle tante costituenti del Teatro Valle). A questa zona grigia della società italiana questa frase dovette sembrare inutile filosofia, e anche quando, sotto la guida della geniale trovata del Movimento 5 Stelle una parte di essa fu indotta a gridare in piazza il nome del giurista, essa lo faceva solo in nome della sua impalpabile lotta contro la casta e dei suoi privilegi. Quando Giuliano Ferrara in quegli stessi giorni diceva che la gran parte di quelli che gridavano il nome di Rodotà ne aveva fin lì ignorato l’esistenza era vero. La cultura, lo abbiamo capito, non è il forte di questa massa indeterminata che abbiamo chiamato zona grigia. Ce ne siamo accorti in questi giorni in cui ci siamo continuamente sentiti attaccati a causa del nostro accademico intellettualismo, del privilegio di aristotelica memoria dello stomaco del filosofo, che pensa solo a pancia piena. E nonostante il tentativo di far comprendere loro che forse il nostro stomaco era più vuoto del loro, e la nostra filosofia più nuda della loro rabbia, nulla è valso a niente. La zona grigia si è ostinata a gridare i suoi assunti: abbiamo fame, fottetevi voi e la vostra cultura! Ma ciò che è drammatico è che il loro rifiuto di cultura era anche un rifiuto di genuina ignoranza dal momento che rifiutavano un confronto. Perché in fondo una loro cultura essi c’è l’avevano già; precisamente quella orientata da quei sogni di cartapesta di cui si è detto sopra: la cultura, o meglio il culto, del loro ego creato ad immagine e somiglianza dell’archetipo politico dominante. Questo archetipo è forse definitivamente caduto, e ha lasciato orfano di un capo chi, consapevolmente o meno, in questi anni non ha fatto che seguirlo. Vuoto di potere che è il riflesso di un vuoto culturale, che non vuole essere colmato, e che intacca, anche qui forse definitivamente, un PD ormai orientato verso la svolta personalistico-carismatica che sola in Italia si è dimostrata essere la scelta vincente. Era inevitabile: dopo aver sentito alcuni tesserati di un PD locale dire che insegnare Gramsci non è concreto, bisognava aspettarselo l’esito Renzi! La scarsa partecipazione all’allarmante protesta del 18 Dicembre in Piazza del Popolo forse sarebbe sufficiente a placare i nostri timori. Ma abbiamo visto con i nostri occhi le facce di chi era in quella piazza. Abbiamo ascoltato i tanto decantati fatti che si pretende di fare. Abbiamo visto gli innumerevoli tricolori presenti e non abbiamo potuto fare a meno di notare, che fino ad allora, probabilmente gente siffatta quei tricolori li aveva sbandierati solo durante i mondiali di calcio. Ci siamo sentiti avvinti dal clima Berlino anni ’30 che aleggiava a valle del Pincio. Nonostante fossero pochi abbiamo avuto timore. In un attimo i nostri storici presagi hanno assunto i lineamenti di un volto: grigio come quello della massa di cui è espressione, privo allo stesso tempo della civiltà e della pesantezza della cultura e della innocente ignoranza, di pasoliniana memoria, della povertà di un mondo contadino ormai quasi del tutto scomparso. Questa zona grigia non vuole prendere una posizione tra innocenza e cultura. Essa vuole allo stesso tempo essere misera e saccente. Essa vuole poter rivendicare la propria povertà nonostante non abbia la dignità per farlo; dignità della povertà che in questi anni essa non ha esitato a svendere in cambio di sogni neoliberisti non alla sua portata. L’unica parola in grado di metterla a fuoco è mediocrità. Essa non è né povera né ricca, né innocente né civile, non è né l’uomo buono di Rousseau né quello cattivo di Hobbes, bensì solo il prodotto mediocre di un’antico sogno borghese: quello che da secoli cerca di livellare, smussandoli in un confine-baratro di mediocrità, l’innocenza della vita quotidiana e l’intelligenza critica che fin qui si sono spartite democraticamente il diritto di rappresentare l’istanza dell’uomo nella sua interezza, fatta di carne e di spirito. Solo la mediocrità, proprio in virtù della sua natura intermedia, può ambire a risolvere questa separazione inconciliabile. Come? Combattendo allo stesso tempo l’ignoranza e l’intelligenza, per aver il monopolio sulla politica, sulla cultura, sulla vita. Solo la mediocrità può ambire ad essere totalitaria; solo essa può creare le premesse per una rivincita del fascismo, che della mediocrità dei suoi dirigenti ed elettori, privi tanto di onestà quanto di intelligenza critica, ha  fatto la propria arma vincente.